In questi giorni tristi caratterizzati dal dolore per la guerra in
Ucraina e dalla paura di un possibile allargamento del conflitto, mi sono
chiesta se questa inclinazione dell'uomo a scandalizzarsi per gli orrori
della guerra per poi cancellare tutto con un colpo di spugna, ricominciare ogni volta con gli stessi errori e le stesse aberrazioni,
non sia scritta da qualche parte nel nostro codice genetico. Perchè non
si spiega, non ha una spiegazione logica questo continuo dimenticare e
comportarsi come se certe cose non fossero mai accadute. Forse, come
diceva Freud, gli uomini oltre che dalle pulsioni del piacere, sono
spinti ad agire dalle pulsioni di morte che li incitano alla
distruzione del mondo e di se stessi. Allora mi sono chiesta a che cosa
serva la voce dei poeti e degli scrittori-che hanno vissuto quegli
orrori sulla loro pelle-che ha cantato, urlato, manifestato contro la
guerra. A cosa serve studiare le loro voci se sentiamo quello che hanno da dire ma non li ascoltiamo col
cuore, non assorbiamo davvero le loro parole? Lo abbiamo visto anche con
la pandemia, basta prendere in mano I promessi sposi per vedere come
abbiamo commeso col Covid gli stessi errori e le stesse invenzioni di
teorie complottiste e negazioniste esattamente come nel 1600 i Milanesi
fecero con la peste. A cosa è servito studiare i Promessi Sposi, solo a
prendere dieci in italiano? Sono risposte che so che non riceveremo mai,
o magari un giorno la scienza riuscirà a spiegarci perchè l'uomo si comporta così. Nonostante tutto credo sia importante
non spegnere la voce dei poeti e degli scrittori, è necessario che la
loro voce sempre si propaghi come un incendio e magari un giorno, forse è
solo un'illusione, la fiamma della saggezza divamperà e gli uomini
andranno incontro a una nuova evoluzione.
La voce che ho deciso di postare è quella del poeta Clemente Rebora, presbitero e reduce di guerra. Sergente durante la Prima Guerra Mondiale, racconta gli orrori della guerra e le sue vicende macabre. Uscirà dal conflito profondamente colpito. Riesce a sopravvivere a una ferita alla tempia provocatagli dallo scoppio di una granata, ma l'episodio lo segnerà per sempre, soprattutto sul piano psicologico. Soffrirà di nevrosi da trauma. Della poesia di Rebora colpisce soprattutto la crudezza delle parole, la descrizione di episodi brutali, la tendenza a soffermarsi su particolari toccanti e lugubri. Il messaggio è chiaro: cercare di suscitare pietà per l'umanità lacerata dalle atrocità della guerra.
Viatico
O ferito in fondo alla piccola valle,
avrai chiesto aiuto con molta insistenza
se tre compagni di guerra integri
morire per te che quasi più non eri vivo.
Tra melma e sangue
come un albero abbattuto
e il tuo lamento straziante continuava,
senza pietà per noi rimasti in vita
a contorcerci perché non vedevamo l’ora che finisse,
velocizza la tua morte,
tu solo puoi mettere fine a questa sofferenza,
e ti sia di conforto
nelle tue condizioni di demenza ma ancora cosciente
in questo momento di attesa della morte
l’intorpidimento della sensibilità,
ma ora devi attendere quel momento in silenzio –
grazie, fratello.
In questa poesia Rebora racconta quel che ha visto con i suoi occhi. Vede cadere in fondo a un vallone tre compagni corsi per soccorrere un commilitone ferito. Il soldato ridotto a un tronco senza gambe invoca aiuto e loro, devastati dall'orrore e dalla paura di morire, impotenti di fronte a quelle immagini atroci, lo esortano a velocizzare la sua morte. Può sembrare una preghiera inumana, ma il messaggio della lirica è chiaro: la guerra è così tremenda, orribile, raccapricciante, terrificante che persino la morte a confronto è un'esperienza meno crudele.
Voce di vedetta morta
C’è un corpo in poltiglia
con crespe di faccia, affiorante
sul lezzo dell’aria sbranata.
Frode la terra.
Forsennato non piango:
affar di chi può, e del fango.
Però se ritorni
tu uomo, di guerra
a chi ignora non dire;
non dire la cosa, ove l’uomo
e la vita s’intendono ancora.
Ma afferra la donna
una notte, dopo un gorgo di baci,
se tornare potrai;
sòffiale che nulla del mondo
redimerà ciò ch’è perso
di noi, i putrefatti di qui;
stringile il cuore a strozzarla:
e se t’ama, lo capirai nella vita
più tardi, o giammai.
La poesia si apre con l'immagine di un corpo ridotto in poltiglia, che almeno nella testa del poeta sembra parlare ancora. E rivolgendosi a chi è ancora in vita, se un giorno ritornerà a casa, dice di non parlare di guerra a chi non la conosce, intende forse coloro che sanno ancora apprezzare il valore della vita. Lo esorta a non abbandonarsi, ad aggrapparsi alla vita, ad amare intensamente ma a non dimenticare i soldati morti in guerra ( i putrefatti di qui), morti sia dal punto di vista fisico che morale a cui nessuno potrà più ridare indietro la vita.